Due Vasi-Lavabo da Sagrestia

sec. XVII
  • Opera: Due Vasi-Lavabo da Sagrestia - sec. XVII
  • Autore: anonimi maestri maiolicari sec. XVIII
  • Provenienza dell\’opera: Chiesa di San Bonaventura di Caltagirone
  • Direzione dei lavori: Enza Cilia Platamone, direttore del Museo Regionale della Ceramica di Caltagirone. Il restauro è stato affidato alla ditta Beatrice Barone, Caltagirone.
  • Indagini scientifiche:
  • Contributo:
  • Documentazione Fotografica: provenienza sconosciuta

Note storiche

I vasi sono tra gli esempi più alti della produzione maiolica caltagironese del secolo XVIII. Decorati con motivi fitomorfi a palmette e girali stilizzati a rilievo nei colori del giallo, del blu e del verde ramina, sono costituiti da tre parti: il piede, il vaso contenitore e il coperchio. Poggiano su una base a capitello sempre in maiolica, decorata a foglie di acanto con al centro una conchiglia, caratteristico motivo della decorazione settecentesca.
Il restauro ha permesso la pulitura e il consolidamento del materiale plastico e dello smalto oltre al ripristino formale e cromatico dei manufatti. Nel Museo Regionale della Ceramica di Caltagirone sono state effettuate operazioni di restauro e di conservazione delle due anfore, maioliche con applicazioni plastiche. In vero sulle opere sono state riscontrati effetti di un degrado prevalentemente imputabile ad agenti esogeni (di natura chimica, fisica, fisico-chimica, microbiologica ed altro).
Alla luce delle considerazioni fatte sulla base di una valutazione attenta della situazione, le operazioni tendenti alla conservazione dei manufatti sono state condotte seguendo mirate metodiche di intervento ricorrendo all’ausilio di moderne tecnologie d’indagine e con l’impiego di materiali idonei ampiamente testati.
Lo schema degli interventi è riassumibile:

  1. analisi della materia e del suo stato di conservazione superficiale
  2. controllo del degrado in profondità
  3. analisi delle alterazioni in vicinanza delle venature o fenditure e della consistenza di quest’ultime
  4. ricerca delle cause del degrado
  5. valutazione dell’incidenza dei danni causati da precedenti restauri
  6. elaborazione di una metodologia di conduzione dell’intervento di restauro
  7. eliminazione delle cause di degrado
  8. finitura estetica
  9. studio per l’approntamento di interventi protettivi

Lo spirito che ha condotto il procedimento di restauro, radicalmente diverso rispetto a quanto è avvenuto nel passato, che ha avuto come conseguenze di prevaricare, snaturare e talora falsificare i manufatti in restauro, è stato di assoluto rispetto nei confronti della realtà storica e fisica dei manufatti.
Durante la prima fase di restauro si è provveduto a rimuovere con un intervento di pulitura la presenza di depositi terrosi e polverosi, quindi degli strati di gesso e malta cementizia presenti su tutta la superficie e dovuti a precedenti restauri. Si sono evidenziate situazioni di decoesione tra il corpo ceramico e il rivestimento argilloso e la presenza di inclusi polimorfi. Le incrostazioni terrose risultavano presenti sia sulla superficie esterna che interna. La superficie delle anfore, per effetto delle sostanze presenti nelle incrostazioni, si è presentata priva della brillantezza primitiva. Le lacune varie erano valutabili attorno al 30% della superficie includendo nella valutazione le aree di incrostazioni cementizie e calcaree importanti. L’impasto interno si è presentato di aspetto omogeneo, la colorazione della pasta di fondo di un colore rosso.
La pulitura è stata praticata con impacchi di acqua deionizzata per permettere di ammorbidire gli strati di incrostazione e renderne solubili le componenti onde procedere alla rimozione con l’eliminazione della tensione superficiale e con una lieve azione meccanica. Si è agito anche con l’applicazione ripetuta di polveri inerti che non contengono sostanze in grado di sciogliersi o di modificarsi in presenza di acqua o di solventi. Si usano in questo caso sepiolite, attapulgite e dolomite.
Nel caso specifico di questo restauro si è impiegata la dolomite addizionata ad acqua deionizzata per formare un impasto malleabile ed adesivo, secondo le specifiche necessità. L’impasto è stato applicato su tutte le superfici delle anfore per un periodo variabile secondo le condizioni ambientali e il tipo di incrostazioni che si dovevano rimuovere. L’impacco veniva rimosso non appena l’evaporazione dell’acqua deionizzata provocava fenditure nella materia dell’impacco stesso.
La pulitura è stata coadiuvata mediante l’uso di una lieve azione meccanica tramite uno spazzolino di fibre di vetro (Thomas) e talora, in alcuni punti, con l’uso adeguato di bisturi.
Come si è detto i manufatti presentavano vistose riparazioni per risarcire rotture, cedimenti e danneggiamenti meccanici. I restauri precedenti avevano fatto ricorso all’impiego di cemento e collanti a base di resine e cere. La tecnica era in uso fin dall’inizio del XX secolo. Le correzioni cromatiche erano eseguite con colori a base di biacca di piombo macinata in olio essiccativo e aggiunta di coloranti in polvere.
Dopo la pulitura e la rimozione di tutte le vecchie stuccature alterate (quelle ancora accettabili dal punto di vista estetico, non sono state rimosse avendo considerato opportuno mantenere una traccia delle vicende restaurative del passato) si è provveduto ad eseguire nuove adeguate stuccature. La stuccatura è stata eseguita fino al livello dello smalto e su di essa si è provveduto a fare le integrazioni cromatiche necessarie. Lo stucco impiegato è a base di impasto di calce, polvere di marmo e collanti organici. Le fratture sono state riparate con stucco colorate usando terre colorate secondo un’opportuna gamma cromatica.
Integrate le parti mancanti si è provveduto al ripristino cromatico mediante l’impiego di colori acrilici (Maimeri) diluiti in acqua e dati in sottotono rispetto agli originali.
Per il consolidamento finale si è usato Paraloid B72 diluito in acetone al 2-3%, con applicazioni ripetute, in soluzioni molto diluite dapprima e con soluzioni in concentrazione superiore per gli ultimi passaggi.
Note sul restauro dalla documentazione fornita da: Beatrice Barone, Archivio A.R.P.A.I.

Luogo dell'Opera